giovedì 16 settembre 2010

Schopenhauer, l'ottimismo e mio padre

Una volta, tempo fa, in uno di quei momenti un po' bui che ogni tanto capitano a tutti, mi sono ritrovata a discutere di ottimismo e pessimismo con una delle mie persone preferite al mondo: mio padre.

Io gli esponevo la mia teoria, che più o meno era questa: quando stai aspettando che succeda qualcosa nella tua vita in cui speri tantissimo, ma che non dipende direttamente da te, è meglio essere pessimisti, perché se poi quella cosa non arriva, almeno eri già preparato al peggio e non ne rimani tanto deluso, e se arriva tanto meglio. Il modello mi sembrava che non facesse una piega.

Invece mio padre, la cui abilità nel rigirare le mie teorie è comparabile solo alla sua pazienza, mi dice: "Sbagli, mia cara, conviene di più essere ottimisti. Immagina di dividere il tempo x in due metà (il prima e il dopo l'arrivo della notizia tanto attesa). Essendo ottimista, se alla fine la cosa va bene, stai bene due volte (prima e dopo l'arrivo della notizia), e se va male, almeno stai male solo nella seconda metà del tempo x considerato".

Insomma, in un'ipotetica economia emotiva, il mio modello era un disastro. E anche se in generale continuavo (e continuo) a pensare che un pessimista è solo un ottimista ben informato, c'era da riconoscere che nell'universo del caso limitato di cui discutevamo, non c'era modo di controbattere cotanta logica. E quel giorno finii per dargli ragione. Come sempre.

Poi, qualche giorno fa, molto tempo dopo quella conversazione, mi è capitato per caso di leggere un aneddoto su Schopenhauer, il re del pessimismo metafisico, che al liceo adoravo e odiavo allo stesso tempo. Risulta che mentre il filosofo faceva una passeggiata con amici per la cordigliera del Taunus, in Germania, un uccello non si seppe trattenere e finì per macchiare la candida giacca bianca di uno dei suoi compagni di passeggiata. "Lo vede?", dice il pessimista Schopenhauer, "Ho ragione con la mia teoria, viviamo nel peggiore dei mondi possibili!". "Al contrario", gli risponde l'altro, "Immagini se fossero le vacche a volare!".

E in quel momento, sorridendo in silenzio, non ho potuto non pensare a mio padre. Perchè anche lui risponderebbe sicuramente qualcosa così.

giovedì 9 settembre 2010

Rinascere

Inciampare, cadere, precipitare, sprofondare nelle viscere di quel che è stato, e scavare e perforare per tornare ossessivamente più e più volte all'inferno che ha generato il tutto, ripetutamente, insistentemente. A cercare risposte, a provare a discernere, a scomporre e ricomporre eventi, luoghi, frasi e persone. Disperatamente, come se non ne avessi mai abbastanza, come se non ci fosse mai una risposta soddisfacente. E tornare a inciampare, a cadere, a precipitare, a cercare. Una volta, un'altra, e un'altra ancora.

Per poi scoprire alla fine che non esistono risposte, ma che tornare e ritornare in modo assillante era necessario, e che era indispensabile morire ogni volta, a ogni giro, ossessivamente. Solo per poter vedere finalmente oltre l'inferno, e scoprire i colori che si celavano dietro.

Colori fatti dell'essenza stessa di te, colori che hai generato solo tu, e che solo tu puoi continuare ad alimentare.

E, finalmente, rinascere. Per l'ennesima volta. Nell'unico modo in cui si rinasce davvero.
Da sola.