“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale né storico definirà un non luogo".
Stazioni, aeroporti, o centri commerciali: secondo l’antropologo Marc Augé, sono non-luoghi per eccellenza.
I non luoghi si oppongono per natura ai luoghi antropologici (una piazza, una strada storica, un parco…): spazi che creano identità per la popolazione, che favoriscono e rappresentano materialmente le relazioni tra gli individui che vi abitano, e che conservano la memoria collettiva degli eventi passati.
Le stazioni o gli aeroporti non hanno niente di tutto ciò. Non creano identità per le persone che li frequentano (sono, di fatto, luoghi di passaggio e nulla di più); non rappresentano né favoriscono le relazioni umane (a nessuno viene in mente di trovare nuovi amici in stazione); e infine non rappresentano la memoria collettiva di nulla. Sono, in definitiva, solo zone di passaggio, di saluti affrettati, di solitudine sfrenata nonostante la folla, di isolamento: non luoghi.
Eppure, nei non-luoghi come stazioni o aeroporti crepita ogni giorno la vita di migliaia di persone, vi bruciano momenti cruciali: addii, rincontri, relazioni, inizi. Se penso a noi, faccio fatica a considerare una stazione un non luogo.
Ma forse Augé ha ragione, perché ieri, agli occhi di chi passava anche solo a pochi metri da noi, probabilmente non eravamo altro che un’immagine come un’altra, senza storia e senza suono. Ma io so che si sbagliavano.
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